Ci sono alcuni giocatori bravissimi con i piedi, un po’ meno con la testa. Il signor Ibrahimovic Zlatan rientra in questa categoria. L’attaccante svedese ha sentito di recente la necessità di scrivere un’autobiografia per raccontare la sua vita (Io, Ibra, uscito in questi giorni).
Un libro di grande intensità dove l’uomo si alterna con l’atleta e dove abbiamo la conferma del tipo di personaggio che ci troviamo di fronte: una grandissima testa di cazzo.
Passino i racconti di quando era bambino e rubava le biciclette, il meglio lo dà quando racconta la sua vita da giocatore.
Alla Juventus c’era un clima di amicizia e armonia. Grazie soprattutto al suo grande amico Luciano Moggi (si sa delinquenti e mafiosi vanno sempre d’amore e d’accordo). Peccato che appena scoppiò Calciopoli (“eravamo semplicemente i migliori e ci dovevano affondare, ecco la verità”) lui preferì lasciare quell’oasi di felicità per andare all’Inter.
In maglia nerazzurra si ritrovò però uno spogliatoio diviso in due tra argentini e brasiliani. Gli altri facevano i gruppetti, i clan e lui, da buon samaritano, voleva riunire tutti. E ne parlò anche con il presidente Moratti. “La vera sfida era rompere quei cazzo di gruppetti. Li odiai fin dal primo giorno, e non dipendeva soltanto dal fatto che io venivo da Rosengård, dove ci si mischiava senza problemi: turchi, somali, jugoslavi, arabi. Era anche perché l’avevo visto già molto chiaramente, sia alla Juventus sia all’Ajax: tutte le squadre rendono molto meglio quando fra i giocatori c’è coesione. All’Inter era l’opposto. Là in un angolo stavano seduti i brasiliani; gli argentini stavano in un altro e tutti gli altri in un terzo. Era una cazzata. Così considerai come mio primo grande test da leader porre fine a quella situazione. Andavo in giro e dicevo: "Cos’è questa storia? Perché state lì seduti tra di voi come dei bambini?”. Quelle barriere invisibili erano troppo nette. Perciò andai nuovamente da Moratti, e fui più chiaro possibile. L’Inter non vinceva il campionato da secoli. Volevamo andare avanti così? Dovevamo essere dei perdenti solo perché la gente non aveva voglia di parlarsi? “Ovviamente no” disse Moratti. “Ma allora bisogna rompere questi dannati clan. Non possiamo vincere se lo spogliatoio non è unito”.
Ma per una strana casualità appena lui è andato via l’Inter vince Coppa Italia, scudetto, Champions League (sì, proprio quella coppa che lui insegue senza raggiungere) e Mondiale per Club.
Non gli andò meglio a Barcellona. Dove Guardiola gli preferiva un certo Messi (mica uno qualsiasi) e lui non riuscì ad integrarsi nella squadra più forte del mondo. Frustato, gliene disse di tutti i colori a Guardiola (“Non hai i coglioni”, “Non vali un cazzo rispetto a Mourinho” e “Puoi andare all’inferno”) che evidentemente preferì soprassedere (con Mourinho e Ferguson non gli sarebbe andato altrettanto bene).
Ma grazie al suo fido Raiola trovò la sua isola felice al Milan tra guardalinee mandati a quel paese e dirigenti che gli suggerivano di raccontare una bugia per farsi ridurre la squalifica. E pazienza se ebbe la felice idea di litigarsi con Onyewu e rimediò una costola rotta.
Insomma non è certo un quadro idilliaco. Più che l’autobiografia di un campione sembra quello di un teppistello di periferia convinto di essere padrone del mondo. Non a caso va d’accordo con gente come Moggi, Galliani e Raiola mentre non riesce a legare con gente come Guardiola.
Del resto, come detto all’inizio, non stiamo certo parlando di un grande campione ma solo di uno bravo con i piedi (e li usa talmente bene che viene da pensare che li utilizzi anche per ragionare e parlare). Non è certo un modello da mostrare ai bambini e questa autobiografia non fa che confermare le nostre idee.
Un libro di grande intensità dove l’uomo si alterna con l’atleta e dove abbiamo la conferma del tipo di personaggio che ci troviamo di fronte: una grandissima testa di cazzo.
Passino i racconti di quando era bambino e rubava le biciclette, il meglio lo dà quando racconta la sua vita da giocatore.
Alla Juventus c’era un clima di amicizia e armonia. Grazie soprattutto al suo grande amico Luciano Moggi (si sa delinquenti e mafiosi vanno sempre d’amore e d’accordo). Peccato che appena scoppiò Calciopoli (“eravamo semplicemente i migliori e ci dovevano affondare, ecco la verità”) lui preferì lasciare quell’oasi di felicità per andare all’Inter.
In maglia nerazzurra si ritrovò però uno spogliatoio diviso in due tra argentini e brasiliani. Gli altri facevano i gruppetti, i clan e lui, da buon samaritano, voleva riunire tutti. E ne parlò anche con il presidente Moratti. “La vera sfida era rompere quei cazzo di gruppetti. Li odiai fin dal primo giorno, e non dipendeva soltanto dal fatto che io venivo da Rosengård, dove ci si mischiava senza problemi: turchi, somali, jugoslavi, arabi. Era anche perché l’avevo visto già molto chiaramente, sia alla Juventus sia all’Ajax: tutte le squadre rendono molto meglio quando fra i giocatori c’è coesione. All’Inter era l’opposto. Là in un angolo stavano seduti i brasiliani; gli argentini stavano in un altro e tutti gli altri in un terzo. Era una cazzata. Così considerai come mio primo grande test da leader porre fine a quella situazione. Andavo in giro e dicevo: "Cos’è questa storia? Perché state lì seduti tra di voi come dei bambini?”. Quelle barriere invisibili erano troppo nette. Perciò andai nuovamente da Moratti, e fui più chiaro possibile. L’Inter non vinceva il campionato da secoli. Volevamo andare avanti così? Dovevamo essere dei perdenti solo perché la gente non aveva voglia di parlarsi? “Ovviamente no” disse Moratti. “Ma allora bisogna rompere questi dannati clan. Non possiamo vincere se lo spogliatoio non è unito”.
Ma per una strana casualità appena lui è andato via l’Inter vince Coppa Italia, scudetto, Champions League (sì, proprio quella coppa che lui insegue senza raggiungere) e Mondiale per Club.
Non gli andò meglio a Barcellona. Dove Guardiola gli preferiva un certo Messi (mica uno qualsiasi) e lui non riuscì ad integrarsi nella squadra più forte del mondo. Frustato, gliene disse di tutti i colori a Guardiola (“Non hai i coglioni”, “Non vali un cazzo rispetto a Mourinho” e “Puoi andare all’inferno”) che evidentemente preferì soprassedere (con Mourinho e Ferguson non gli sarebbe andato altrettanto bene).
Ma grazie al suo fido Raiola trovò la sua isola felice al Milan tra guardalinee mandati a quel paese e dirigenti che gli suggerivano di raccontare una bugia per farsi ridurre la squalifica. E pazienza se ebbe la felice idea di litigarsi con Onyewu e rimediò una costola rotta.
Insomma non è certo un quadro idilliaco. Più che l’autobiografia di un campione sembra quello di un teppistello di periferia convinto di essere padrone del mondo. Non a caso va d’accordo con gente come Moggi, Galliani e Raiola mentre non riesce a legare con gente come Guardiola.
Del resto, come detto all’inizio, non stiamo certo parlando di un grande campione ma solo di uno bravo con i piedi (e li usa talmente bene che viene da pensare che li utilizzi anche per ragionare e parlare). Non è certo un modello da mostrare ai bambini e questa autobiografia non fa che confermare le nostre idee.
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1 commento:
Grazie per gli scudi che ci hai aiutato a vincere, ma concordo pienamente che sei un teppistello testa di cazzo purtroppo anche troppo pagato grazie a quel papppone di raiola meno male che non sei più con noi. INTER PER SMPRE
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